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sabato 24 gennaio 2009

Il (vero) testamento di De André

Conobbi Fabrizio De André in casa di amici, nei primi anni Sessanta. Era un giovanotto timido, elegante, molto schivo. Dovevamo pregarlo molto perché osasse prendere la chitarra. Eravamo a Genova, città conservatrice e chiusa. E quel Re Carlo reduce di guerra che si imbatte in una facile avventura agreste con una prostituta circolava quasi sottobanco, in un 45 giri dall’aria vagamente fatta in casa. La canzone era un po’ goliardica, le ragazze bene arrossivano a dire puttana, eppure anche quella era già emancipazione…
Le prime canzoni erano spesso traduzioni da Brassens, o a lui comunque ispirate, spesso anche un po’ ingenuamente. Fabrizio non si vergognava di usare il rimario. Poi il suo discorso poetico e musicale evolve, si fa raffinatissimo, nelle orchestrazioni e nei testi: scrive brani come Via del Campo (vicolo genovese di travestiti e prostitute), ma anche pezzi sentimentali, come La canzone dell’amore perduto, Valzer per un amore, Amore che vieni amore che vai. Tra le più belle canzoni del repertorio italiano, in assoluto. Con gli anni, il suo percorso si fa più ricco e complesso: l’esemplare composizione dedicata all’universo della tossicodipendenza, quel tragico disperatissimo Cantico Dei Drogati, è ispirato ai poeti maledetti della tradizione francese, come François Villon. In seguito De André tocca spunti religiosi, con i racconti dei Vangeli, e le figure di Cristo e Maria, che il cantautore tratta con una religiosità tutta laica ma intensamente spirituale, attraverso una personalissima sublimazione fatta anche di materia e carnalità.
La lezione di Andrè è artistica, il suo vero testamento è poetico e non politico. Eppure oggi, in una foga compulsiva che vorrebbe tutti ideologicamente schedati o reclutatibili, lo si vorrebbe idealmente collocare nell’ ambito politico-culturale della sinistra. Operazione arbitraria e anche un po’ manipolatoria. Nulla di più lontano dalla realtà di un poeta individualista, anarchico, misantropo, di estrazione borghese coltissima, ancorché ripudiata. Da vero artista, Fabrizio De Andrè si sottrae ai parametri dell’ideologia, da individualista solitario e sarcastico non è interessato a categorie che anche lontanamente sappiano di pubblico o collettivo : il suo discorso è squisitamente privato, esistenziale, al centro del suo mondo trovi gli emarginati e i derelitti, non la classe operaia. Insofferente di ogni gerarchia (detestava “i gendarmi con i pennacchi e con le armi”), tantomeno avrebbe sopportato quella di partito. E la sua religiosità, per quanto terrestre, si direbbe inconciliabile col greve materialismo di quegli anni.